Se tralasciamo l’immagine patinata e consumistica dei media, che vogliono le discipline sportive come passerelle per campioni in cui identificarsi, dobbiamo constatare che lo sportivo è alla ricerca di benessere attraverso l’utilizzo e lo sviluppo delle proprie abilità nel confronto con sé stesso e con gli altri. L’atleta si propone si superare continuamente barriere avvicinandosi ed imparando a conoscere e gestire i propri limiti. Che una disciplina venga praticata a livello agonistico, amatoriale o per diletto, i fattori da considerare sono similari: l’individuo con la propria abilità e determinazione, l’obiettivo che si vuole raggiungere con i relativi ostacoli da superare, ed il contesto in cui agisce fatto di regole e persone.
Gli atleti, disabili e non disabili, usano le stesse risorse, cioè le proprie abilità, facendo leva entrambi sulla determinazione personale, sono cioè lo stesso sportivo.
Condividono un obiettivo medesimo, perché è posto ai confini dei “propri” limiti raggiungibili attraverso il superamento di ostacoli. Verrebbe da dire a questo punto che è avvantaggiata la persona con deficit, in quanto per tutta la vita è abituata a sfruttare al massimo le proprie potenzialità, non deve scoprirle in allenamento, visto che le barriere quotidiane da superare sono sicuramente una “palestra” inevitabile. I due mondi che potrebbero apparire così distanti sono ora molto più vicini, anzi sembrerebbe addirittura superflua la domanda: deve essere lo sport a penetrare nel mondo dell’handicap o il contrario? L’individuo, nel momento in cui svolge una determinata attività, in questo caso sportiva, deve potersi scrollare di dosso gli elementi di cui si avvale. Lo sport per sé concede questa possibilità, perché separa le disabilità, valorizzando le abilità. La persona in tuta da ginnastica è un giocatore, un atleta, non un disabile, la carrozzina o l’ausilio utilizzato nella disciplina prescelta non è fattore discriminante riconducibile all’handicap, ma elemento proprio dello sport praticato. In palestra noi non vedremo mai dei disabili in carrozzina che giocano a basket, ma degli atleti che giocano a basket in carrozzina!
La possibilità di disgiungere le disabilità questo può avvenire ovviamente solo nel contesto sportivo, e deve essere chiara la differenza tra un’esperienza sportiva, anche se non necessariamente agonistica, ed un percorso terapeutico riabilitativo. La riabilitazione deve occuparsi della disabilità, lo sport delle abilità. Le competenze e le risorse da mettere in campo sono molto diverse, ed una demarcazione dei due ambiti è necessariamente il primo passo per avvicinare le persone con deficit alle potenzialità per l’attività motoria e sportiva offrono in termini anche di benessere psicofisico. Purtroppo esistono ancora puerili pregiudizi sull’integrazione degli atleti disabili, uno degli argomenti che vengono frapposti allo sviluppo di queste riflessioni riguarda la presenza e la funzione degli ausili, (il caso Oscar Pistorius è emblematico,) ancora una volta si cerca di introdurre un elemento di diversificazione, si cerca di evidenziare la differenza. In realtà sono gli ausili che caratterizzano le diverse discipline, ne troviamo di tutti i tipi, non sono forse ausili ruote, bastoni o racchette che prolungano le capacità degli arti? Per eseguire il salto con l’asta non è indispensabile appunto un ausilio? Queste riflessioni o suggerimenti probabilmente non risolvono le importanti problematiche che tutto il mondo dello sport ha di fronte per riuscire ad interpretare al meglio le esigenze e le domande degli strati sempre più ampi di popolazione che si avvicinano. Che debbono comunque servire per scalfire vecchi luoghi comuni e false convinzioni che non avendo capito il vero spirito sportivo, la vera essenza dello sport, ne travisano le interpretazioni danneggiando non una categoria di persone, ma lo sport stesso. Le problematiche da affrontare sono sicuramente molto più vaste, ma sappiamo che nello sport è possibile confrontarsi, mettersi in discussione, soffrire e gioire e dobbiamo impegnarci affinché questo venga offerto con le spesse possibilità ad ognuno. Sappiamo e lo sa chiunque abbia praticato una disciplina o si sia divertito in un campo da gioco anche sporadicamente, che in quei momenti ci si spoglia di tutte le differenze, non si riconosce nell’altro un ceto sociale diverso, una professione o altro, ma semplicemente l’atleta che si sta impegnando. Questo non avviene ancora nei confronti dell’handicap, la pratica sportiva, invece, è l’esperienza che per definizione elimina le barriere costruite da uomini, imponendo di confrontarsi tenendo unicamente conto delle regole, questo ha permesso di anticipare il superamento, nella storia anche recente, di divisioni etniche, culturali, religiose, ecc.
Se ancora ci accorgiamo che esiste una barriera costruita sulla confusione e sulla incapacità di misurare e comprendere la disabilità, vogliamo immaginare e partecipare all’abbattimento di questa ultima barriera. Una riflessione particolare merita poi il rapporto tra sport ed handicap mentale, inteso quest’ultimo termine come disturbo nella sfera cognitiva o relazionale. Premettendo che gli effetti benefici comunemente riconosciuti alla pratica sportiva su persone cosiddette normali, lo sono vieppiù per persone più deboli o svantaggiate, in quanto vanno ad agire su quadri di sofferenza o disagio ancora più accentuati. Pertanto, laddove il movimento provoca un miglioramento nelle condizioni fisiche del soggetto (apparato cardiocircolatorio, apparato respiratorio, tono muscolare, connessioni neuronali, funzioni nervose, ecc.) tanto più troveremo i benefici di questo miglioramento amplificati in soggetti che, pur non avendo difficoltà motorie particolari, per la lo storia tendono ad una vita sedentaria, che risulta poco stimolante verso gli aspetti dinamici anche più banali (camminare, correre, saltare, salire e scendere scale, prendere l’autobus, andare in bicicletta, ecc.) che solitamente caratterizzano o dovrebbero caratterizzare la vita quotidiana delle persone. Ma le abilità motorie non sono l’unico aspetto importante, è nell’ambito psicologico relazionale che possiamo giocarci la “partita”, i fattori motivazionali, emozionali, interpersonali sono sempre stimolabili e rinnovabili, possono migliorare la quantità e soprattutto, la qualità della vita.
Il grande movimento sportivo sviluppato negli ultimi anni con il coinvolgimento di migliaia e migliaia di atleti disabili ha ampiamente dimostrato che lo sport rappresenta per il portatore di handicap non solo un mezzo insostituibile di recupero psicofisico, ma anche uno stimolante mezzo di integrazione sociale. Ogni disciplina sportiva ha una sua utilità per il conseguimento di risultati terapeutici, lo sport consente infatti, nelle sue diverse tipologie, di svolgere una qualche attività motoria, traendone una migliore conoscenza del proprio corpo, una più corretta concezione dello spazio e del tempo, un miglioramento dell’equilibro e della coordinazione, il tutto non disgiunto da un globale miglioramento psichico. L’aspetto socializzante dello sport si evidenzia particolarmente nei rapporti interpersonali, non soltanto attraverso le competizioni ma anche per mezzo dell’associazionismo, l’appartenenza a una squadra sportiva, la pratica di gruppo. Nello sport il gruppo è determinante l’apporto tecnico, psicologico, educativo che ne ricevono i componenti: ansia, competitività, vittoria e sconfitta vanno condivisi nella stessa misura da tutti i giocatori, sviluppandosi così lo spirito di solidarietà. In alcune discipline sportive i disabili gareggiano insieme con gli altri non disabili (tiro con l’arco, tennis tavolo, pallanuoto, tiro a segno, e altri). Questi incontri, oltre a sviluppare migliore comprensione, stimolano spesso rapporti di amicizia duraturi. Più i portatori di handicap crescono insieme ai non disabili, più la “diversità” sarà bilateralmente accettata…e se non riusciremo a cambiare il nostro tempo, possiamo sempre sperare che il nostro lavoro cambi il futuro.
Mauro Bornia, Presidente Ass.AFRODITE Presidente Consulta Provinciale dell’handicap della Spezia